Gabriella Dal Lago, Estate caldissima, Greta non ha paura di niente a eccezione di

Un camaleonte si aggrappa sulle dita di una donna passando da una mano all'altra

Estate caldissima di Gabriella Dal Lago

Estate caldissima di Gabriella Dal Lago
66thand2nd, giugno 2023 (cartaceo 15 €, 176 pagine; ebook 9,99 €)

(È una cosa che ama fare. Mettere in imbarazzo le altre persone attraverso il suo corpo. Greta non lo sa, come potrebbe saperlo? Così occupata a guardare i corpi delle altre solo per mettere a fuoco il proprio.)

La narrazione del lavoro in Italia sembra scomparsa dai romanzi insieme alla presunta smaterializzazione dello stesso in seguito all’avvento del digitale. Se il racconto del secondo settore è diventato così raro da spingere una casa editrice come Alegre a dedicarle una collana apposita – Working class diretta da Alberto Prunetti – per dare voce a chi in fabbrica fatica oggi, la forza lavoro del terziario avanzato per paradosso raramente si esprime circa quello che fa. La trita e ritrita frase “non riesco a spiegare ai miei il mestiere che faccio” è diventata sinonimo di un’incomunicabilità del proprio mestiere con un retrogusto amaro, perché molto spesso tale lavoro coincide esattamente con il mestiere del comunicare.

“[Aveva immaginato il figlio] medico o avvocato per tutte le scuole superiori. E invece era un quarantenne con i capelli lunghi e un lavoro troppo difficile (e vagamente imbarazzante) da spiegare ai suoi amici imprenditori in pensione” scrive Gabriella Del Lago presentando appunto Gian, il fondatore dell’agenzia di comunicazione Bomba Agency, i cui componenti sono al centro delle vicende raccontate in “Estate caldissima”. Se persino i nuovi capi del XXI secolo sono delegittimati ab initio quali possono essere i destini dei loro sottoposti? Il capitale iniziale c’è sempre (i soldi per aprire l’agenzia, per pagare gli stipendi; la casa di campagna di proprietà dove i lavoratori, pardon, collaboratori si riuniscono per preparare una gara per un cliente) quel che manca è il senso del lavoro che mette in moto.

Non vorrei a questo punto spaventare un lettore indeciso se leggere o meno “Estate caldissima”. Non è un saggio sul lavoro contemporaneo, è soprattutto la storia di otto persone e un animale e delle loro interazioni. A differenza di un film italiano medio ambientato in una campagna indefinita fuori Milano (città che, anche se assente, ricorre in molti dei tic dei personaggi) i protagonisti però lavorano – sono account, art director, grafici, copywriter, ufficio stampa – dimostrando sulla pagina come un certo modo di lavorare oggi sia quasi indistinguibile dalla vita non lavorata. I personaggi vale a dire fanno quasi lo stesso mestiere di quelli della serie “Mad Men” (ambientata negli anni Sessanta) solo che adesso sono molto meno pagati, non hanno più bisogno di un ufficio e non hanno più una casa dove tornare.

“Estate caldissima” ha il merito di concentrarsi su un preciso segmento di trentenni che un lavoro ce l’hanno (anche se quasi del tutto avulso dalla realtà degli oggetti fisici, si intuisce da frasi lavorative come “per me la palette colori non funziona”) ma che non riescono magari a sfuggire alle dipendenze (sostanze, alcol, sesso, ecc.) o alle catene digitali delle interazioni sociali malate che la messaggistica istantanea e i social network serrano intorno a loro fino a soffocarli, in particolare le donne.* E sarebbe già da leggere solo per questo: mi ci trovo? conosco qualcuno così o no? Non è invece una storia di quarantenni – rappresentati da Gian, l’unico della compagnia a essere genitore, l’unico che occupandosi come può del figlio piccolo in qualche modo “vede” un futuro – né di ventenni, né di bimbi. 

Mi è piaciuta molto la narratrice onnisciente imperfetta utilizzata da Dal Lago per raccontare questa storia: sa tutto, spazia dal passato al futuro, ma non sempre ti dice tutto ciò che sa. Mi piacerebbe incontrarla nei suoi prossimi romanzi. Mi sono piaciute in “Estate caldissima” anche le lievi pennellate fantastiche, o fantascientifiche, accennate dall’autrice nella descrizione di quarte dimensioni travestite da spazi interstiziali e di piogge torrenziali che dilavano (o trasformano) ogni cosa. Come ho scritto via Twitter ai diretti interessati, ho infine trovato delle affinità tra lei e Vincenzo Latronico, altro scrittore che apprezzo che non teme di confrontarsi col mondo attuale fatto di smartphone e vite incasinate. 

* Un personaggio in particolare è davvero inquietante, un potenziale serial killer di donne, di quelli raccontato dalle cronache. E sì che Dal Lago si limita a presentarlo come un manipolatore!

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Silvia Bottani, Un altro finale per la nostra storia, la prima immagine è stata un abbaglio

Bottani Un altro finale per la nostra storia

Un altro finale per la nostra storia di Silvia Bottani

Un altro finale per la nostra storia di Silvia Bottani
SEM Libri, gennaio 2023 (cartaceo 18 €, 208 pagine; ebook 8,99 €)

Ho fatto ancora delle fermate, provando tenerezza […] per i signori di mezza età stropicciati, con le pance e i tagli di capelli sbagliati, le scarpe sbagliate, un po’ allucinati e, speravo, non simili a me.

Mentre mi affretto a scrivere queste righe prima di riportare in biblioteca “Un altro finale per la nostra storia”, il secondo romanzo di Silvia Bottani pubblicato da SEM Libri, mi domando che cosa non mi ha convinto di questa storia. Bottani è una brava scrittrice, ho letto e apprezzato il suo romanzo precedente, “Il giorno mangia la notte”, e contavo di andare sul sicuro. Eppure avrei dovuto capirlo sin dalle prime pagine che la storia di Mauro Massari, l’eccezionale “atleta mentale” quarantenne specializzato in gare di memoria protagonista dell’intreccio, non sarebbe andata da nessuna parte. Lettori avvertiti, questo è un romanzo raccontato a ritroso, tutto è successo, forse, tutto è raccontato di nuovo mentre Mauro è impegnato davanti alla giuria a ricordare sequenze di numeri per dimostrare il suo talento. Ci si può fidare di una voce narrante che sostiene di poter ricordare tutto?

“Vedi come è facile ricostruire il copione di quello che ci accade, stando nella verità e nella finzione senza tradire né l’una né l’altra?” si domanda retoricamente Mauro ripensando alla storia che ci sta raccontando. Se invece voi, come me, al narratore inaffidabile preferite quello affidabile allora può darsi che non abbiate molta voglia di leggere una vicenda che, chissà, magari non è andata proprio così come ce la stanno spiegando. A ogni modo, “Un altro finale per la nostra storia” si sviluppa intorno a un vuoto, quello lasciato da Fabio, compagno di liceo e migliore amico di Mauro, che un 5 aprile degli anni novanta del XX secolo sparisce. Data che dovrebbe dirvi qualcosa se c’eravate. Nonostante le ricerche, non si saprà più nulla di lui; viceversa, Bottani ci narra come quella sparizione sconquasserà le vite della famiglia di Fabio e imprimerà una traiettoria bizzarra a quella di Mauro.

Sarà la sorella di Fabio, Bianca, a ricontattare Mauro per cercare di venire a capo di quell’allontanamento volontario. Perché decidere di sparire? E viene da pensare, perché a quarant’anni (l’età del protagonista) viene voglia di rivangare il passato e stendere bilanci? Inizia quindi la narrazione di un rapporto amicale esclusivo al maschile à la “Y tu mamá también” – mai visto il film di Alfonso Cuarón? – che ci farà conoscere Fabio dal punto di vista di Mauro e poi via via da quello della sorella, della madre e di altri personaggi. Sbilanciarsi di più non posso perché a pochi minuti dalla restituzione del romanzo mi viene in mente che una delle possibili interpretazioni del romanzo sia proprio questa: non stiamo leggendo tanto la storia di Mauro e Bianca, quanto quella di Fabio ferma in un eterno presente di una primavera milanese di trent’anni fa.

Come in “Il giorno mangia la notte”, un’altra assoluta protagonista del romanzo è Milano, il centro (l’Università degli Studi, piazza Sant’Alessandro, il Museo Civico di Storia Naturale, il Cimitero Monumentale, la rievocazione del campo di pelota basca di via Palermo) e la sua periferia meridionale, quella parte di San Donato Milanese sviluppata dall’ENI perché “nelle tue parole mi sembrava di sentire il potere del gas e del petrolio, l’effervescenza degli idrocarburi che fungevano da propulsori per la vita dell’Ingegnere e della vostra famiglia, quel petrolio che era ormai innominabile”. “Un altro finale per la nostra storia” può essere letto anche come la storia del declino di un certo tipo di classe sociale (la borghesia delle professioni cui appartiene la famiglia di Fabio) e di fenomeni come quello del downshifting, più volte evocato da Mauro. 

Gli ingredienti per un buon romanzo ci sono quindi tutti: qualcosa di insolito (la mnemotecnica, la tassidermia, l’occultismo); qualcosa di dolce (l’innamoramento del protagonista); qualcosa di esotico (un sogno d’Asia e di spiritualità); qualcosa di tipico (gli scorci di Milano); qualcosa di artistico (una performance in piena regola in qualche spazio milanese ad hoc); qualcosa di torbido (eh no, questo non ve lo dico, lo scoprirete voi); qualcosa di passato (gli anni novanta); qualcosa di futuro (la figlia di Mauro). Che nel giro del palazzo della memoria di Mauro – in questo senso, la descrizione della rievocazione dei ricordi, di cui la tecnica del palazzo è uno degli espedienti, il romanzo è riuscito – scritto da Bottani tutto quanto accennato sopra riesca ad amalgamare bene non me la sento di dirlo, o per essere chiari, io a un certo punto mi sono perso. Altri lettori troveranno la loro strada. 

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Flavio Pintarelli, Il velo, sakoku significava “Paese chiuso”

Copertina di "Il velo" di Flavio Pintarelli

Il velo di Flavio Pintarelli

Il velo di Flavio Pintarelli
Edizioni alphabeta Verlag, marzo 2023 (cartaceo 15 €, 208 pagine)

Quello che i più sapevano sull’Alto Adige era che si trovava a nord.

Quasi trent’anni fa un gruppo di adolescenti italiani di cui facevo parte riuniti per tre settimane a Dun Laoghaire, appena fuori Dublino, per imparare l’inglese era abbastanza omogeneo. Capelli più o meno lunghi, idee più o meno progressiste, capirete, in seconda o terza superiore come si poteva essere. A distinguersi un solitario ragazzo di Bolzano. Capelli cortissimi, biondo, vestito sempre di nero con un cappellino dell’Adidas. Evidentemente di destra. Già conoscevo il Trentino-Alto Adige da figlio di una bellunese (“Di là hanno i soldi”) ma il mio impatto con il Südtirol oltre il “velo” di cui parla Flavio Pintarelli nel suo romanzo è stato proprio quel ragazzo di cui ho scordato il nome. Dopo gli ultimi attentati degli anni ottanta del Novecento per mano dell’Ein Tirol del resto in tanti in Italia hanno rimosso gran parte della storia recente di questa lontana provincia di lingua tedesca.

Avanti veloce. Nella Bolzano della metà degli anni dieci del XXI secolo al centro delle vicende narrate in “Il velo” vive Alex. Il nostro protagonista è un copywriter trentenne che si ritrova a occuparsi di un progetto editoriale concepito per magnificare il “brand Alto Adige” oltre gli stereotipi ma aderente alla narrazione di successo della Provincia autonoma. Ci accorgiamo subito che l’altro polo della vicenda è invece un interrogativo esistenziale. Cosa ha richiamato Alex nella sua terra natale dopo gli studi a Siena? Perché vi è legato seppure ne percepisca, letteralmente nel corso del libro, tutte le dissonanze? Perché pur avendo scelto un lavoro intellettuale non ha conseguito quell'”equilibrio tra creatività e sopravvivenza” che altri sembrano aver raggiunto? “Il velo” è il reportage di un Alto Adige che con le foto impeccabili delle home page dei siti dei suoi alberghi ha poco da spartire.

“Il velo” è il racconto di un sabotaggio, il tentativo di un bolzanino sfuggito alla logica dei blocchi voi/noi – rappresentato nella mia esperienza dal ragazzo di destra che ho citato in apertura – di narrare un Alto Adige oltre la contrapposizione etnica, muro contro muro che si mantiene in vita artificialmente per accentuare un’originalità del territorio sfruttata in chiave turistica. E allora anche gli approfondimenti ambientali (le conseguenze dell’innevamento programmato) o politici (gli scontri al Brennero del 2016 tra polizia e anarchici per il diritto al passaggio dei migranti verso nord, il depotenziamento del Monumento alla Vittoria di Bolzano grazie a un’installazione artistica del 2017) da vicende secondarie diventano centrali. Perché la Storia deve tornare a fluire tra monti e valli che forze antichissime vorrebbero sempre uguale, ci suggerisce il nostro autore.

A corroborare l’ipotesi del sabotaggio di cui sopra altri personaggi de “Il velo”: Manfred, la spalla del protagonista, l’aiutante dell’eroe se fossimo in un romanzo fantastico (o forse lo siamo?), un fotografo bolzanino che sarà al fianco di Alex nelle sue peregrinazioni per la Provincia, la possibilità di un dialogo con l'”altro”; Arianna Lanzinger – il vero avversario, inteso anche in senso diabolico/tentatore, del romanzo di Pintarelli –, incarnazione di quel ceto dominante cui ci si dovrebbe rivoltare contro invece di dilaniarsi tra esclusi dal grande gioco; Aubet, Cubet e Quere, entità misteriosa e ctonia che, all’insegna del perturbante teorizzato da Mark Fisher, altera l’equilibrio del protagonista nutrendosi dell’odio contrapposto e artificioso delle comunità altoatesine per preservare una stasi di fatto che alimenta solo infelicità. Non esattamente un invito a vivere l’Alto Adige. 

“Il velo” è un romanzo che ha il torto di essere breve. Per dipanare meglio il confronto di Alex con Aubet, Cubet e Quere ci sarebbero volute più pagine, se non proprio 1200 almeno 400, il doppio di quelle che leggerete. Coinvolgente la descrizione del rapporto tra Alex e la sua partner di vita, Serena, anche se che a volte è un po’ troppo tirato via, qualche sottotrama che li riguarda sembra appena abbozzata. Anche il personaggio di Manfred meritava altri paragrafi. Compiuto è invece il racconto del territorio con gli approfondimenti di cui vi ho scritto che comprendono anche l’uomo del Similaun e scontri tra “famiglie” di motociclisti (!). E non poteva essere altrimenti perché anche se Serena dice a Alex: “Il tuo bel raccontino non cambierà nulla. Bolzano, l’Alto Adige, il mondo intero andranno avanti così come sono” chi crede nelle parole ci prova sempre a cambiare le cose. 

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Matteo B. Bianchi con Eleonora Daniel (a cura di), Quasi di nascosto, 12 nuovi autori sotto i 25

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Quasi di nascosto a cura di Matteo B. Bianchi ed Eleonora Daniel

Quasi di nascosto a cura di Matteo B. Bianchi con Eleonora Daniel
Accento, novembre 2022, (cartaceo 16 €, 176 pagine; ebook 8,99 €)

Gli occhi dei cattivi hanno spesso una malinconia di ragazzi. Sono fermi all’età in cui tutto è possibile ma già si avverte la piega storta che inizia a prendere l’esistenza, si intravede l’aprirsi di una crepa, un incrinatura [da “Nel cuore della matrioska” di Isabella Silvestro].

E dunque come scrivono i ventenni di oggi? Onore al merito di Matteo B. Bianchi (direttore editoriale) che insieme a Eleonora Daniel (editor), per inaugurare il catalogo della casa editrice Accento fondata da Alessandro Cattelan (editore), hanno deciso di andarlo a scoprire col più rischioso dei prodotti editoriali, l’antologia di esordienti o quasi. Dodici autori sotto i venticinque anni raccolti in un formato tascabile che sembra anche più piccolo delle sue reali dimensioni (è leggermente più ridotto di un Universale Feltrinelli) e con una grafica di copertina che mi ricorda tanto le copertine delle cassette musicali che facevo da me alla fine degli anni novanta del XX secolo. Grafica vintage per nuovi scrittori di cui possiamo leggere i profili biografici in coda al volumetto. Molti provengono dalla classe creativa come si dice ora, di altri sappiamo che hanno già molto viaggiato.

Non me ne vorranno Bianchi e Daniel ma credo che “Quasi di nascosto” lascerà il segno nella storia dell’editoria italiana soprattutto per la sua introduzione. “Nella prima fase della ricerca [dei testi per l’antologia] siamo arrivati a porci un dubbio assai più radicale, ossia: Scrivono oggi i giovani italiani? Perché scovarli sembrava impossibile” scrivono i curatori. E da lì il nome dell’antologia: “Eravamo sicuri che qualcuno lo facesse [di scrivere narrativa], ma appariva sempre più evidente che per il momento agissero in privato, senza esporsi, quasi di nascosto”. Il ragionamento corretto dei curatori era che se a un certo punto dai venticinque in su si arriva ai trentenni e ai quarantenni che scrivono sulle riviste ora, nel 2023, significa che prima in qualche modo esista qualcuno che ancora preferisce la forma racconto alla scrittura polverizzata della rete e dei social.

È stato in questo modo che, nel corso di un anno, scrivono i curatori, dai quattrocento testi iniziali si sia arrivati ai dodici racconti e altrettanti autori e autrici che compogono la raccolta. Tenetene conto quando e se la leggerete. Il grande valore delle antologie è la selezione. Venendo al sodo, tra le tematiche ricorrenti in “Quasi di nascosto” troviamo la scuola (o l’università), l’estate, il mare e il corpo dei protagonisti e delle protagoniste (principali e secondari). Oramai tutti i tabù sono stati infranti quindi ben poco viene nascosto al lettore tra fluidi corporei (sudore, sperma, sangue, ecc.) e rapporti vari. C’è una fame di vita “tutto o niente” se si è superata la soglia della maturità, possono giusto indugiare chi sta ancora studiando, per tutti le altre e gli altri è giunto il momento di “fare”, che sia un furto con destrezza o avere un amplesso sulla spiaggia.

E ci si consola (o ci si dispera? scegliete voi) se i grandi interrogativi di chi è nato alla fine degli anni novanta e all’inizio del Duemila riguardino quindi, quasi per proprietà transitiva dalle tematiche di cui sopra, la scoperta del sesso (e a volte del genere, si veda “Non diventare donna” di Martino Giordano), i timori per l’entrata nella vita adulta, la comprensione di sé, ecc. Non c’è niente di nuovo come ciò che ricorre ciclicamente, forse. Tra i temi esclusi da “Quasi di nascosto”, per converso e curiosamente, la tecnologia – praticamente assente, giusto gli smartphone o i social del racconto di Aminata Sow “Pelle italiana” –, il cambiamento climatico – se non trasfigurato nel racconto di fantascienza (?) “Primo” di Micol Maraglino che, almeno al sottoscritto, ha ricordato qualcosa di Valerio Evangelisti – il mondo del lavoro – unico accenno a memoria nel racconto “Miasma” di Emma Cori, dove è una delle caratteristiche del protagonista aver rinunciato all’università per fare le stagioni come bagnino. 

Naturalmente per chi di anni ne ha quaranta, come chi scrive, alcune cose per forza di cose, e sappiano gli autori e le autrici che riguarda me non loro, sanno di già incontrato: il resoconto di una particolare notte d’estate in un racconto, la scrittura alla Brizzi di un altro, lo stereotipo della manic pixie dream girl (ancora!) in altri due (in uno a dire il vero è virato al maschile), il racconto quasi gotico con quella che pare molto una succubus e l’altrettanto inquietante narrazione di un festino in villa. I due racconti che mi sono piaciuti di più? “Strenta” di Riccardo Casella e “Nel cuore della matrioska” di Isabella De Silvestro. Li ho trovati più compiuti degli altri e ho appreso qualcosa di nuovo su parti d’Italia o istituzioni di cui conosco poco. Sarà comunque la prova del tempo a determinare chi rimarrà e chi si perderà tra i giovanissimi autori di “Quasi di nascosto”. In bocca al lupo a tutti loro. 

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Daniele Del Giudice, I racconti, sei di nuovo nel rumore, sei nel caldo

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I racconti di Daniele Del Giudice
Einaudi, aprile 2016, (cartaceo 19 €, 232 pagine; ebook 9,99 €)

Guardavano il quadro per l’ultima volta, come si guarda una casa prima di lasciarla [da “Nel museo di Reims”].

Può capitare di trascorrere una vita senza leggere autori considerati fondamentali. A volte capita per mere ragioni anagrafiche, si arriva una generazione dopo o una prima. Daniele Del Giudice (1949-2021) è stato uno di questi autori per me. Un anno più giovane di mio padre, ero troppo piccolo negli anni ottanta e novanta per leggere le sue cose. Quel che Einaudi negli ultimi tempi sta facendo è riproporne l’opera per scopritori tardivi, come me, o per chi già lo conosceva trenta/quaranta anni fa e vuole rileggerlo. Ricordo di avere iniziato con “Lo stadio di Wimbledon”, riproposto in libreria nell’anno della morte, e di essere stato colpito da una scrittura non comune. La storia al centro del romanzo d’esordio (1983) di Del Giudice era però troppo personale perché mi coinvolgesse davvero.

Altro discorso I racconti che presenta tutti i racconti di Del Giudice pubblicati in volume (otto racconti) più cinque racconti fino al 2016 non pubblicati in volume. Tredici racconti pubblicati tra il 1985 e il 2013. Il silenzio di Del Giudice successivo a questa data è dovuto a una malattia neurologica. A chi crede nelle coincidenze, a un qualche tipo di fato, com’è noto questo autore avrebbe presagito il suo destino: “È un peccato che per me, proprio per me, la luce stia cambiando in ombra. Sarebbe un peccato per chiunque natualmente, ma è difficile accettare di essere scelti per certi destini” (da “Il museo di Reims”). Sono in gran parte storie quelle di Del Giudice che flirtano con la fine, spesso in un connubio, da aviatore qual era, tra la precisione della tecnica e la certezza matematica dell’ineluttabile.

I racconti che preferisco della raccolta sono senza dubbio quello della citazione sopra, Il museo di Reims, Fuga e Di legno e di tela. Sono i tre racconti più storici e, allo stesso tempo, più ucronici. In “Il museo di Reims” assistiamo alla visita di un personaggio che sta perdendo la vista a una immaginaria copia de “La morte di Marat” di Jacques-Louis David, che si dice custodita a Reims; in “Fuga” un ragazzino finisce per caso nel cimitero di Santa Maria del Popolo a Napoli dove un immaginario (reale? fantastico?) custode lo aiuterà a scappare da una minaccia di morte; in “Di legno e di tela” saliamo a bordo di un idrovolante Caproni del 1935 insieme al pilota Gerolamo Gavazzi [in questo caso probabilmente si tratta della rielaborazione di un vero volo sul lago di Como] per quello che è anche un volo di ricognizione sulla letteratura italiana dedicata all’aeronautica.

Va beh, come sono allora ‘sti racconti? Abbiamo capito non mettono allegria. Perché dovrei leggere Del Giudice? Perché ti passa la voglia di scrivere (se avete di queste folli ambizioni) da quanto era bravo, si è messi di fronte all’evidenza di un talento per la scrittura immediatamente percepibile. Una precisione chirurgica nella costruzione della frase e nella struttura del racconto, l’equivalente letterario di vedere una mostra di una selezione di dipinti del Canaletto. Come scrive Tiziano Scarpa nella prefazione alla raccolta: “Quanto più si è oggettivi, tanto più si è malinconici. È questa la mania di Daniele Del Giudice. I suoi personaggi spesso cercano di recuperare l’irrecuperabile, che si manifesta nel tempo della sparizione. In loro la disperazione non grida mai, ma a volte può abbandonarsi al rammarico”

A ogni modo, consigliato a chi è affascinato dalla Storia (i tre racconti sopra); certi racconti – “Dillon Bay”, “Mercanti del Tempo”, «Com’è adesso!» – invece sarebbero stati il nucleo di una raccolta persino di genere, un fantastico al limite con la fantascienza. A un certo punto, per darvi un’idea, ho pensato agli otto racconti di Ted Chiang che compongono il suo “Storie della tua vita”. Tornando a Del Giudice, c’è anche spazio per un giallo destrutturato come “L’orecchio assoluto”, dove ti aspetti da un momento all’altro salti fuori un investigatore alla Agatha Christie o alla Arthur Conan Doyle. Altri semplicemente dimostrano la bravura di Del Giudice anche nel brevissimo: “Popiove”, “Naufragio con quadro”, “Ritornare a Sud”. E naturalmente c’è anche spazio per racconti con cui non sono entrato in sintonia ma li lascerò scoprire a voi, se mai affronterete questa lettura.

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Dario Ferrari, La ricreazione è finita, “Fermarci ora sarebbe da vigliacchi” disse

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La ricreazione è finita di Dario Ferrari
Sellerio, febbraio 2023, (cartaceo 16 €, 476 pagine; ebook 9,99 €)

“Il tallone d’achille [del professor Sacrosanti] è il godimento quasi erotico che trae dai rapporti di potere accademici. Lo ha sempre perseguito, il potere, a maggior ragione da quando è diventato preside della Facoltà di Lettere”.

Ho aspettato qualche giorno dopo aver terminato il libro a scrivere di La ricreazione è finita di Dario Ferrari. Una delle ragioni è che Ferrari, nato nel 1982, laureato in filosofia a Pisa e poi ricercatore con tesi di dottorato, rappresenta una delle possibili strade che non ho percorso (in tutte le interpretazioni della poesia di Frost che volete); ho infatti un paio d’anni più di lui e una laurea in storia. Il romanzo di Ferrari narra di un dottorato in Lettere dedicato all’opera letteraria di un terrorista viareggino, Tito Sella. Anche la struttura del romanzo ricalca in apparenza i tre anni di questo percorso con un prologo e un epilogo. Chi si è imbarcato in una carriera universitaria post-laurea potrà confermare o meno tutto quello che Ferrari racconta del mondo accademico italiano, calcando molto, ci si augura, sul grottesco con immediata efficacia comica.

E si potrebbe interpretare così la fiction di Ferrari, la descrizione minuziosa di un ambiente lavorativo a beneficio zero per la società (tutti massimi esperti di nicchie culturali fini a se stesse), dove contano i rapporti di forza tra i professori, ex giovani degli anni settanta nati una generazione prima dei ricercatori, al sicuro nelle loro posizioni di privilegio, sia economico sia sociale, mentre i trenta/quarantenni di oggi rimangono se va bene precari a vita o se va male stritolati dal meccanismo. Quanti anni si può stringere i denti attendendo un posto sicuro all’università? Perché confidare nel riconoscimento del merito se Marcello, il protagonista di “La ricreazione è finita”, per primo beneficia forse di una borsa di studio per caso, per un calcolo sbagliato? Non era a questo punto meglio il mondo di ieri, quello dove la rivoluzione si tentava di farla davvero?

E però, e però, all’interno di “La ricreazione è finita” c’è un racconto breve – “La fantasmina” – opera perduta del terrorista di cui sopra, scritta da Marcello partendo dai diari di Tito recuperati a Parigi, che può valere un’altra intepretazione del romanzo. “La fantasmina” è il vero romanzo sugli anni settanta che Ferrari avrebbe potuto scrivere e le trecento pagine dedicate a Marcello, alla sua famiglia, alla fidanzata e alla cerchia di amici, ai suoi colleghi universitari, ecc. una glossa di trecento pagine sotto mentite spoglie. “La ricreazione è finita” sarebbe dunque una vicenda potenzialmente immaginaria, le note a margine di un’esistenza, quella di Marcello ambientata ai giorni nostri, negli anni appena precedenti la pandemia, che si può comprendere solo a posteriori, alla luce di quello che è accaduto, o non è accaduto, in Italia cinquant’anni fa.

Letta in tal modo è l’esistenza di Marcello, non quella di Tito, a essere letteraria. Marcello è un Candido a cui le cose capitano per inerzia, “a un certo punto mi trovo ad aver fatto qualcosa senza aver mai deciso di farla” (p. 11) , Ferrari ce lo scrive a metà della prima pagina. I genitori di Marcello nascondono un segreto che almeno io come lettore ho accettato per puro atto di fede. La fidanzata di Marcello, Letizia, sebbene plausibile nella sua perfezione, è funzionale alla “manic pixie dream girl” Tea che il protagonista incontrerà a Parigi. Gli amici ad alto tasso di gradazione alcolica di Marcello, giunti trentenni ad avere famiglie squinternate senza comprenderne le responsabilità, sono macchiette umoristiche se confrontati ai membri della Brigata Ravachol messa in piedi da Tito. E l’università? Un ambiente lavorativo in cui senza motivo si perpetuano le ingiustizie di quello operaio.*
Liberi di prendere l’interpretazione esposta due paragrafi sopra come tale. Lo stesso Ferrari in un paio di pagine esilaranti riguardanti l’ermeneutica accademica dell’opera di Sella lascia intendere, o forse no, che si può dire di un testo tutto e il contrario di tutto. “La ricreazione è finita” si legge benissimo senza porsi troppi pensieri dall’inizio alla fine divertendosi, e parecchio, – ai vecchi come me ha riportato alla memoria atmosfere alla Virzì – e senza volerci leggere dentro per forza altri significati. Quindi, riassumendo, divertimento con retrogusto agrodolce. A chi si fosse interrogato sul significato del titolo riporto un passaggio della “Fantasmina”: “Tito si rese conto che non aveva granché voglia di far finire la ricreazione, e che forse era vero che per lui la rivoluzione era sempre stata un gioco”.

* Si confronti la citazione in apertura del professor Sacrosanti con quanto Tito Sella/Dario Ferrari scrive del mondo operaio degli anni settanta, a pagina 221: “Al [cantiere] Zama invece c’erano alcune persone il cui compito sembrava precisamente quello di trarre un piacere quasi erotico dal vessare i sottoposti”.

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Paolo Milone, Astenersi principianti, la morte e il nulla son cose diverse

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Astenersi principianti di Paolo Milone

Astenersi principianti di Paolo Milone
Einaudi, febbraio 2023, (cartaceo 17 €, 140 pagine; ebook 9,99 €; inviato in omaggio dall’editore)

– Cosa sta facendo, così lo ammazza! Lo faccia respirare!
– Signora, ma non vede che non respira?

Mentre sto scrivendo queste righe non ho (ancora) letto il romanzo di esordio che ha lanciato Paolo Milone fra le nuove promesse della narrativa italiana: L’arte di legare le persone (2021). Milone è di un anno più giovane di mia madre ed è anche la dimostrazione, come Camilleri del resto, che si può entrare da protagonisti sulla scena editoriale italiana anche superati di molto i sessant’anni. Se per il volume citato sopra eravamo dalle parti del memoir, o del racconto della propria professione, Milone è uno psichiatra, in Astenersi principianti siamo invece sullo scaffale dei libri dedicati al tirare le somme, alle riflessioni su come, di fronte all’inevitabile, si sia chi più chi meno tutti inadeguati perché non preparati. Anche se per l’autore la consapevolezza della mortalità la si può paragonare a un farmaco, se la si usasse con oculatezza.

Astenersi perditempo è diviso in sei sezioni. All’interno di esse componimenti in versi liberi, come in L’arte di legare le persone se ho ben capito, si alternano a brevi racconti, come quello che apre il libro. A Genova un uomo in coda alla cassa di un supermercato soccorre un uomo colpito da infarto. A rendere surreale la scena la moglie dell’infartuato, che non riesce a capacitarsi di come il marito le stia letteralmente morendo sotto gli occhi. Perché alla morte non crediamo più, perché la morte non la “vediamo” più, dato che la nascondiamo negli ospedali e nelle case di riposo. A proposito degli eventi degli ultimi due anni, inevitabile almeno un accenno, Milone scrive: “[Suvvia, ndr] Richiudiamo la morte nei suoi recinti”, che non è in fondo quello che ha infastidito di più chi alla morte non dà più peso?

Molti racconti hanno protagonista la Morte personificata, quella degli affreschi medievali con tanto di veste nera e di falce, o forse, più che al Medioevo, Milone si rifà alla morte immaginata da Bergman in “Il settimo sigillo”. Dubito che l’autore conosca lo scrittore inglese Terry Pratchett ma in alcuni punti mi ha anche ricordato la Morte del Mondo Disco nata dalla penna di questo autore, maestro del fantasy umoristico. Si ride amaro in Astenersi principianti perché spesso Milone utilizza la “formula Samarcanda” per spiazzare il lettore: a chi farà davvero visita la Morte? A un personaggio chi ci sembra agonizzante o a quello che pare una comparsa sprizzante di vita? In altri tratteggia la Morte curiosa di comprendere l’uomo, come nel film Vi presento Joe Black (1998), o almeno desiderosa di prendersi una vacanza.

“Il reparto psichiatrico è l’ultima stazione di posta / alla frontiera del nulla”. Immagino che i lettori di L’arte di legare le persone saluteranno con piacere i frammenti poetici dedicati alla pratica psichiatrica. Non mancano e sono circostanziati al tema di questo libro. Alcuni esempi: se è vero che la depressione può ammazzare, è altrettanto vero che letale può essere pure l’eccesso di euforia dei soggetti maniacali; invece, cosa lascia il suicida dopo di sé? Oggetti che qualcuno raccoglierà. E nei casi di suicidio a volte trenta secondi potrebbero fare la differenza tra la vita e la morte. In altri casi colpiscono le definizioni più semplici, ma non per questo meno efficaci, di un disagio: “Io sono un pesce d’acquario / Se mi butti in mare, muoio”. E se teniamo a mente che Milone è di Genova anche due frasi così piane acquistano un significato più profondo.

C’è grande cura in questo volume – a partire dalla copertina, un’eterea illustrazione di Jean Cocteau di un uomo con le ali – che si legge in un pomeriggio, o in una giornata, e torna in mente nei giorni successivi. Certo dai trent’anni in giù colpirà gli spiriti più malinconici mentre non è consigliato (o forse sì, per una terapia letteraria d’urto) a chi con la morte non vuole averci nulla a che fare. Sebbene Milone scriva che “la morte non si fa prendere dalle parole. / Sfugge negli spazi bianchi, / come l’acqua del mare sfugge tra le dita” l’impressione, almeno la mia, è che ci sia riuscito a raccontarla. A farla camminare insieme al lettore per le strade di Genova, tra la passeggiata di Nervi e corso Italia (ma Milone non abusa della sua città che spesso non nomina) in un dialogo personale che diventa universale.

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Consigli di lettura: saggistica italiana e il libro postumo di Hitchens

Copertine dei saggi di Sciandivasci, Culicchia, Viola, Mantellini e Hitchens

Cose leggere di saggistica italiana (più un classico in lingua straniera da riscoprire) recente? Vi consiglio cinque libri che mi sono passati fra le mani. Un ringraziamento alla Biblioteca Civica di Rovereto, che custodisce una copia dell’ormai introvabile e fuori catalogo libro postumo di Hitchens – certo, a oggi si può comunque comprare a 35 euro su eBay e simili –, e a Einaudi che mi ha fatto omaggio dei libri di Viola e Mantellini (grazie!). Come in una puntata di “Sei gradi” di Radio Tre, i cinque saggi sono legati tra loro perché dalla famiglia passiamo al divorzio, dal divorzio all’avvocata divorzista che parla dei suoi libri preferiti, da un libro di Natalia Ginzburg che ha ispirato Mantellini una riflessione sulla vecchiaia oggi, dalla vecchiaia alla morte. Tutti, tranne Mortalità, sono disponibili anche in formato ebook tra i cinque e i dodici euro, verificate se la vostra biblioteca li ha in digitale.

Simonetta Sciandivasci (a cura di), I figli che non voglio, Mondadori. Raccolta letta per Geranio, il gruppo di lettura online cui partecipo. Titolo dietro al quale troverete pure gente che di figli ne ha avuti, però immagino che intitolarlo Figli sì, figli no sarebbe stato meno accattivante. Essendo una raccolta troverete le opinioni più varie, gran parte delle quali sono apparse sulla “Stampa” alimentando un bel dibattito in un Paese come il nostro dove le donne tendono comunque a fare meno figli. Le storture dovute all’inverno demografico che attende la società italiana si riflettono anche negli interventi più giornalistici che avrei limitato. In generale mi sono piaciute di più le testimonianze di chi dice senza mezzi termini “madri mai” di quelle che dicono “non so”.

Giuseppe Culicchia, Finché divorzio non vi separi, Giangiacomo Feltrinelli Editore. Satira al tempo del politcamente corretto sulle coppie che si separano aggiornata anche alle combinazioni oltre la lui/lei, che Culicchia sbrigativamente attacca in fondo al volume dopo aver descritto il punto di vista di lui e il punto di vista di lei riguardo a cosa capita alle copie che si sposano e poi si separano. Leggevo un po’ scettico pensando che quelli della mia generazione che conosco raramente si sono sposati saltando subito alla fase di farsi una famiglia. Però Culicchia è del 1965, ha quindici anni più di me, quindi può darsi che stia racontando qualcosa che riguarda la sua generazione. Riprendendo le parole di Douglas Adams, un pamphlet: fondamentalmente innocuo.

Ester Viola, Voltare pagina: dieci libri per sopravvivere all’amore, Einaudi. Ester Viola, di cui avevo molto appezzato l’esordio L’amore è eterno finché non risponde (2016) sia il seguito Gli spaiati (2018) torna per raccontarci dieci libri che qualcosa sull’amore possono insegnarlo, da Alta fedeltà di Hornby fino a Revolutionary Road di Yates. A cornice della descrizione dei dieci libri altrettanti casi di coppie che scoppiano o donne e uomini scottati dall’amore in quel di Milano che tutti attira e tutto trasforma. Un testo riconducibile al genere dei libri che consigliano altri libri, Voltare pagina ci riporta nel mondo letterario dell’autrice ma facendoci rimanere troppo poco, come in visita in uno di quei palazzi meneghini dove “sono i camerieri a portare i cani in strada”.

Massimo Mantellini, Invecchiare al tempo della rete, Einaudi. Concepito come un tributo al saggio La vecchiaia di Natalia Ginzburg (disponibile in Mai devi domandarmi), testo in cui nel 1968 la scrittrice si interrogava a 52 anni (!) su che cosa volesse dire diventare vecchi, Mantellini fa il punto su cosa significhi, cinquanta anni dopo, la stessa cosa. Cosa c’è di diverso? “È accaduto che la tecnologia è diventata ubiquitaria e molto potente […] oggi il tema principale riguarda il patto che la vecchiaia stringe con le tecnologie digitali e la loro invadenza”. Memorabile l’analisi del vecchiogiovane che l’autore identifica come una delle reazioni possibili all’attuale età digitale: “Il vecchiogiovane […] riconosce [la sua età] e la rifiuta” per poi infine gettare anche lui la spugna.

Christopher Hitchens, Mortalità, Piemme (trad. it. di S. Puggioni e A. Carena). Volume del 2012 che raccoglie gli ultimi articoli scritti su “Vanity Fair” dallo scrittore britannico, poi statunitense, Christopher Htichens, scomparso il 15 dicembre 2011 a 62 anni per un cancro all’esofago. L’ho recuperato grazie a un’indagine sui mestieri della morte che la casa editrice per cui lavoro pubblicherà a maggio 2023. Mortalità è il racconto della scoperta della malattia, della speranza di essere in quell’esigua percentuale di persone capaci di scamparla fino alla “decisione di accettare qualunque cosa la mia malattia mi riservi e di rimanere combattivo pur misurando la portata del mio inevitabile declino”. Memoir disincantato di un ateo sul nostro comune destino.

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Consigli di lettura: fantascienza e primo Novecento

Copertine dei romanzi di Ta-Wei, Diaz, South, Larrue e Pomella

Letture a cavallo dell’anno. Quando le vacanze natalizie permettono l’abbuffata, complice anche l’ottimo assortimento della Biblioteca Civica di Rovereto. Le passo di nuovo in rassegna prima di restituirle (sono tutti volumi disponibile anche in formato ebook tra i cinque e i dodici euro, verificate se la vostra biblioteca ne possiede una copia digitale).

Chi Ta-Wei, Membrana, Add Editore (trad. it. Alessandra Pezza). Un romanzo di fantascienza classica del 1995, che fortunatamente ha infine trovato la sua edizione italiana. Chi Ta-Wei ci porta sott’acqua, dove l’umanità si è trasferita per via delle redazioni solari – se vi ricorda qualcosa “Highlander II” è del 1991, nessuno scudo però a difendere la Terra – e Momo, protagonista della vicenda, lavora come estetista. Sarà vero che tale professione è diventata di importanza capitale nel 2100? Leggetelo per scoprirlo. E se le membrane vi rammentano qualcos’altro, forse sono le clips del sistema SQUID di “Stranger Days”, non a caso dello stesso anno (1995). Se invece siete giovani un po’ vi invidio perché la storia vi sembrerà del tutto nuova ^___^

Hernan Diaz, Trust, Giangiacomo Feltrinelli Editore (trad. it. Ada Arduini). La vera sorpresa per me del 2022, un romanzo che leggi e ti viene da pensare: “Che bello leggere romanzi!”. Non uno, non due, non tre ma bensì quattro storie che raccontano da punti di vista diversi la stessa vicenda. Capite che da fan di David Mitchell non posso chiedere di meglio (nessun elemento soprannaturale però, se non vi piacciano andate tranquilli). Difficile raccontare qualcosa di Trust senza rovinarvi il piacere di capirne il meccanismo. Molto bella la rievocazione della New York e dell’Europa primo Novecento che fa da sfondo alla trama – c’è anche spazio per l’emigrazione italiana negli Stati Uniti e le idee anarchiche contrapposte a quelle degli speculatori di borsa.

Mary South, Mi ricorderò di te, Pidgin Edizioni (trad. it. Stefano Pirone). Primo volume di questa piccola casa editrice napoletana che leggo e, vista la proposta, non sarà neppure l’ultimo. Dieci racconti che oscillano tra la fantascienza e una fotografia della nostra realtà odierna, sempre più intermediata dalla tecnologia. I racconti di South che colpiscono di più, a mio parere, i secondi, quelli plausibili – L’età dell’amore, Mi ricorderò di te (che dà il titolo alla raccolta), L’agente immobiliare dei dannati – mentre quelli dove South spinge sull’acceleratore scifi virano troppo sul bizzarro, penso a L’ostello in particolare. Anche i temi della maternità e dell’accudimento sono tra i leitmotiv della raccolta, se per voi sono inquietanti evitate di leggerla.

Arthur Larrue, La diagonale Alechin, Neri Pozza (trad. it. Alberto Folin). Dovrebbe esistere un genere letterario a sé per i romanzi che hanno come elementi cardine, o comunque importanti, gli scacchi e gli anni trenta e quaranta del XX secolo – La variante di Lüneburg di Maurensig, Novella degli scacchi di Zweig, La città dei ladri di Benioff ecc. (altri spunti sul “Libraio”: Libri sugli scacchi: tra romanzi, saggi e racconti. La diagonale Alechin del francese Larrue racconta l’ultima parte della vita alquanto sregolata di Aleksandr Alechin, campione del mondo di scacchi dal 1937 al 1946. Scacchi, viaggi in piroscafo e in treno, la Francia, Parigi, i nazisti, i sovietici: se non ne avete abbastanza è il romanzo per voi. Brillante e tetro insieme, molto materico.

Andrea Pomella, Il dio disarmato, Einaudi editore. Romanzo del 2022 letto per Geranio, il gruppo di lettura online cui partecipo. Ricostruisce gli antefatti dell’agguato di via Fani del 16 marzo 1978 nel quale dei criminali trucidarono Oreste Leonardi, Raffaele Iozzino, Francesco Zizzi, Giulio Rivera e Domenico Ricci, uomini di scorta del presidente della Democrazia Cristiana Aldo Moro. Moro fu rapito per poi essere ucciso a sua volta il 9 maggio. “‘Chi ha morto il nonno?’ chiedeva Luca. ‘Degli uomini cattivi’ rispondeva Agnese. ‘Con cosa?’ domandava Luca. ‘Con una pistola’ diceva Agnese. ‘Perché?’ chiedeva ancora Luca. ‘Non lo sappiamo, quando lo sapremo te lo diremo’” [da La casa dei cento natali di Maria Fida Moro].

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Patricia Lockwood, Nessuno ne parla, poco a poco il mondo la richiamò a sé

Nessuno ne parla di Patricia Lockwood
Nessuno ne parla di Patricia Lockwood

Nessuno ne parla di Patricia Lockwood
Traduzione di Manuela Faimali
Mondadori, aprile 2022, (cartaceo 18,50 €, 168 pagine; ebook 9,99 €)

«”Probabilmente andrò a casa quando avrò finito la magnum di vodka” si disse, come una Cenerentola al contrario, continuando a infilarsi nel bicchiere che le calzava alla perfezione».

In uno scambio su Twitter qualche settimana fa mi sono accorto di quanto poco si parlasse di “Nessuno ne parla” di Patricia Lockwood, probabilmente perché il suo personaggio in Italia ha meno seguito che negli Stati Uniti (più di 110.000 follower su Twitter, per darvi un’idea). Qualche giorno dopo Mondadori mi ha inviato una copia del libro perché ero e sono convinto davvero che bisognerebbe dargli più visibilità. Lockwood del resto non è nuova al lettore italiano, che ha già potuto leggere il suo memoir “Priestdaddy. Mio papà, il sacerdote” nel 2020. E se già essere figlia di un prete cattolico è una storia che merita di essere raccontata di per sé ciò è ancora più vero per quella narrata in questo romanzo.

Diciamo che vi ho convinto e avete acquistato o preso in biblioteca “Nessuno ne parla”. Dopo poche pagine vorreste scrivermi un’email chiedendomi cosa l’avete preso a fare perché “non si capisce niente”. Ecco, il libro di Patricia Lockwood merita di fare un po’ di fatica in più. Di immaginare, come ha fatto lei, il modo migliore per rendere sulla pagina lo scorrere infinito dei post sui social network, e non solo. Anche la nostra reazione a essi. Nel romanzo la figura del marito è spesso utilizzata come controcanto alla assuefazione a Internet della protagonista. Siamo sicuri sia davvero necessario apprendere in presa diretta ogni minima tragedia del mondo? “Ovvio che stava piangendo. Perché lui non stata piangendo?”.

Diviso in due parti, “Nessuno ne parla” affronta esattamente questo tema. Il nostro presente, che anche se in modo differente per fasce generazionali, caratterizzato dalla simultaneità informativa del nostro essere connessi con, potenzialmente, ogni altro essere umano del pianeta, e il nostro privato, che possiamo decidere o meno se gestire secondo le regole del mondo nuovo (“[…] alla fine non aveva idea di dove finisse lei e dove iniziasse il resto della gente”), oppure no. Tenerci per noi. Perché non sempre la vita è una successione di meme divertenti da condividere, a volte, perché non dire sempre?, sono anche fatti terribili che vuoi/puoi vivere solo con la tua famiglia o comunque con le persone a te più vicine.

Fate allora questo sforzo, superate la prima parte, ricordo a tutti che Lockwood è una poetessa e onore alla traduttrice Manuela Faimali di aver reso comprensibile una successione di frasi che altro non è che un flusso di coscienza (con tanto di omaggio a Joyce: “Quando varcò i cancelli di Saint Stephen’s Green, il nuovo libro, il flusso di coscienza collettivo, iniziò a scorrere verso il busto rigido di Joyce”) la seconda parte è tutta un’altra storia, infatti. Se la notizia della gravidanza della sorella della protagonista era stata solo una notizia tra le tante tra quelle affiorate tra le onde del portale, vale a dire Internet, una diagnosi medica linfausta a rende così speciale da, incredibilmente, strapparla da una vita in funzione di essa.

Perché il tempo che possiamo dedicare alle persone, il tempo intimo dello “stare vicino” non in senso lato ma fisico è ancora in gran parte fuori dalla Rete. Non è stato digitalizzato come tante altre cose, anche se può sembrarlo, a volte. Se devo aiutare concretamente un parente, o in generale il mio prossimo, ciò è possibile perlopiù staccando da Internet. O per meglio dire, solo in una modalità di comunicazione con l’altro totale, c’è chi ci riesce anche a distanza, si può essere partecipi della sofferenza dell’altro. E piangerete anche voi come ho fatto io per la piccola Lena, per la volontà di vita di una piccola bambina rimasta su questa terra giusto il tempo di provare a comunicare e di farsi amare.

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